Matilda De Angelis: il talento italiano che il mondo intero ci invidia!

Spontanea, complessa, ironica, decisa, curiosa, realista. Matilda arriva al pubblico e ai colleghi così. Crea empatia e sa come entrare in contatto con i suoi personaggi. E ora chiude il 2024 con due serie tv in streaming in tutto il mondo, mentre prepara altri due ruoli importanti, di cui uno per il suo idolo di sempre

Matilda De Angelis intervista Moty GQ 2024

«Sebbene talvolta l’accusassero di mistificazione, il suo intento non è mai stato quello di ingannare; un solo nome, semplicemente, non bastava a contenerla». Matilda De Angelis mi legge questa citazione che appare nella quarta di copertina di Biografia di X di Catherine Lacey (2024, Edizioni SUR) mentre dal cellulare mi mostra le fotografie che ha scattato ai libri che ha letto di recente. Fa le foto alla copertina, alla quarta, e spesso anche di lato al plico di pagine; lo fa se deve mostrare a qualcuno perché non si è fatta sentire: era occupata a leggere un volume lunghissimo, ecco perché non poteva rispondere al telefono. Mentre legge quella citazione, ci guardiamo, ma non ci diciamo nulla. Non so cosa volesse dirmi, ma io le avrei detto che quella frase poteva benissimo parlare di lei.

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Il libro in questione è una biografia di un’artista che non è mai esistita e che si nasconde dietro lo pseudonimo di X. Eppure quella frase si adagia benissimo su Matilda De Angelis: spiega il modo in cui attraversa i personaggi che interpreta sullo schermo. Lo fa come se fossero abiti degli altri che si prova addosso per vedere se possono funzionare su di lei, e in un certo senso tutti, alla fine, le stanno incredibilmente bene. Quando recita, Matilda non mette in atto nessun tipo di inganno, ma fa leva su qualche sua predilezione e interesse che già vive dentro di lei. È una persona vasta, ed è per questo che può interpretare un’avvocata femminista dell’Ottocento (come fa nella serie Netflix La legge di Lidia Poët, di cui è uscita ora la seconda stagione) e allo stesso tempo una spia che vive in un distopico 2030 (come nella serie di Prime Video Citadel: Diana) ed essere comunque convincente. Queste due serie televisive escono nell’autunno del 2024, in un anno che vede il nome di Matilda comparire ovunque. Sicuramente parte del merito è di Citadel: Diana, che è il primo progetto spin-off del mondo di Citadel, di cui i fratelli Russo, Anthony e Joe di AGBO, sono gli executive producer, così come di tutte le serie di quell’universo. Dal momento che la serie nasce per essere globale, il volto di Matilda, che interpreta la protagonista, nel 2024 buca gli schermi di tutto il mondo, esattamente come aveva fatto nel 2020 con la serie HBO The Undoing. E rimane una delle uniche attrici italiane in grado di farlo. Il 2024 è anche l’anno in cui vengono annunciati due progetti di cui farà parte prossimamente: un film su Goliarda Sapienza (di cui ha letto praticamente tutti i libri), ma soprattutto Dracula diretto da Luc Besson. Un anno di successi grandiosi, ma anche un anno sulla soglia di qualcosa di ancora più grande, un po’ come premettono i suoi 29 anni.

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Matilda mi dà appuntamento in un posto vicino a casa sua a Milano: è un bar che, come tutte le cose di cui si circonda, ha il nome di un luogo che non è realmente. Fa parte della sua magia. I camerieri che ci portano il tè la conoscono, le dicono di averla vista sui loro schermi in tanti ruoli diversi e continuano a congratularsi con lei. Che anno è il 2024? Cosa dice dei suoi 29 anni? «Ti dico subito che non sono particolarmente spaventata di compierne trenta. Per la vita che vivo da quando ho 18 anni, è come se li avessi già compiuti 87 volte. Quel trenta nella mia testa è solo un numero, non ha niente di simbolico. Le persone pensano che a 30 anni diventiamo veramente adulti e quindi hanno l’ansia del lavoro, del fidanzato, dei figli, ma trovo che siano tutti discorsi antichi. Poi io mi sento di aver vissuto cento vite; ho fatto tante esperienze e ho iniziato a farle da molto giovane, intorno ai 16 anni, quindi è come se sentissi un certo disincanto dalla realtà. Ho vissuto una vita di magia e quindi non so bene che cosa sia la vita vera». Fa sicuramente riferimento a quel momento quasi casuale del 2016 in cui ha incominciato a fare l’attrice su suggerimento di un amico, che le ha proposto di fare un provino per un film che avrebbero girato a Bologna, città dov’è nata e cresciuta. Ed è lì che è iniziato tutto, finendo con lei che accompagna Stefano Accorsi nel suo primo film, Veloce come il vento. «Spesso, senza nemmeno sognarli, i miei desideri si sono avverati. Questo sicuramente mi ha fatto male sotto alcuni punti di vista, ma mi ha anche facilitato il gioco. Mentre lavoravo i miei amici stavano ancora finendo di studiare all’università e si stavano chiedendo che cosa fare da grandi. Bruciando le tappe, i desideri prendono un peso diverso». Nonostante quando parla usi spesso le parole “sogni” e “desideri”, Matilda è ben consapevole di quanto siano pericolosi perché nel suo caso finiscono per avverarsi. «Ho smesso di fare il gioco dei desideri, anche quando soffio le candeline». Racconta, per esempio, che il suo sogno più grande era di recitare in un film di Luc Besson. «È stato magico e allo stesso tempo assurdo trovarmi a fare una chiamata Zoom con lui e raccontargli che mi chiamo Matilda perché mia madre quando era incinta di me ha visto Léon. Continuavo a guardare il quadratino di Zoom in cui c’era scritto “Luc Besson” per accertarmi che fosse vero, non ci potevo credere».

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Matilda De Angelis vive in bilico costante tra i sogni e il desiderio di distruggerli. La prima volta che ci incontriamo veramente è qualche giorno prima del nostro appuntamento al bar che ha il nome di qualcosa che non è. Faccio capolino nel suo camerino mentre sta facendo cambio abito per il servizio di copertina e la trovo tutta tesa a leggere un articolo appena uscito su Deadline. Si tratta, in realtà, di un pezzo molto positivo: racconta che Citadel: Diana ha superato dei record mai raggiunti prima in Italia dalla piattaforma Prime Video. Quando finisce di leggere, tira un sospiro di sollievo e dice alla sua agente che anche questa volta il suo lavoro è salvo e non deve pensare a inventarsi un piano B. La frase esce nella melodia di una battuta, ma è chiaro che per qualche brevissimo istante il pensiero l’abbia attraversata per davvero. «Addestrata a pensare al peggio», è una delle descrizioni che in Citadel: Diana fanno più volte del suo personaggio, un’infiltrata in un’organizzazione segreta che si propone di garantire la sicurezza mondiale in una Milano distopica del 2030 in mano al controllo militare. Le chiedo se anche lei è addestrata a pensare al peggio. «In realtà sono una grande ottimista, non mi butto giù molto facilmente, ma il mio lavoro mi frustra perché non ho il controllo al cento per cento di quello che accade. Io faccio un pezzo del lavoro e mi ci impegno al massimo, ma ho sempre la sensazione di aver fallito. Mi porto dietro un senso di inadeguatezza costante. La realtà è che non dipendo dal parere degli altri: mi possono anche dire in ottanta che sono stata brava, ma non cambierà mai nulla per me. Forse non essere mai soddisfatta è una cosa di cui ho bisogno per mantenere il fuoco acceso», risponde. «Ogni tanto devo ricordare di dirmi: “Sai cosa? Oggi sei stata proprio brava”. Anche se non ho fatto niente, sono solo arrivata alla fine della giornata. Gioco al ribasso».

Secondo il sito dell’Istituto di Psicologia e psicoterapia comportamentale e cognitiva, la sindrome dell’impostore è una condizione per la quale «le capacità e le abilità personali sono costantemente sottostimate e, così, si sperimenta la sensazione di non meritare i risultati positivi raggiunti». Per Matilda, il risvolto la porta al tentativo costante di rasentare la perfezione. Di spingersi sempre oltre. «Io non sono un’attrice di metodo: nasco come attrice quasi per caso. Quindi l’unica cosa che posso fare è studiare tantissimo. Gli accenti, le movenze, scoprire che cosa sa della vita il mio personaggio. Se Diana è una spia, mi sembrava scontato dover imparare come si tirano i pugni e come si tiene in mano un’arma». Il riferimento è a Citadel: Diana, dove nel 90 per cento delle scene non ha usato stunt: c’era lei dietro a quasi tutti i combattimenti e sparatorie. Anche in quella scena che appare nel trailer nella quale il suo personaggio si trova sospeso in aria sul Cretto di Burri. Racconta di essersi allenata per quattro mesi tra parkour, diversi tipi di arti marziali e il training con il maestro d’armi, e che in generale nella serie sono stati usati pochi effetti speciali. Una serie analogica, la chiama. «È lì che il mio lavoro è una figata: attraverso quello che faccio posso imparare a conoscere mondi che altrimenti non conoscerei mai. Per me è tutta una questione di curiosità. Se non si è curiosi verso la vita degli altri, è difficile calarsi nei loro panni. Devo essere curiosa della vita della persona che devo interpretare, altrimenti come faccio a renderle giustizia? Come faccio a raccontarla? Come faccio a coinvolgermi emotivamente? Per me la recitazione è tutta una questione di curiosità». Se recitare significa fingere di essere un’altra persona, è qualcosa che a lei viene naturale? E cosa c’è di così affascinante in questo continuo diventare altro? «Ho una buona memoria, quasi fotografica, che mi rende tutto molto più semplice: mi è sempre venuto naturale ricordare le battute, ma devo dire che di facile nella recitazione non c’è niente. Non sono una persona che si imbarazza facilmente o che si vergogna, quindi mostrarmi agli altri non mi pesa – magari è solo egocentrismo mitigato da una professione meravigliosa, meglio così che esprimerlo in altri modi! Per me è facile stare davanti agli altri, parlare, emozionarmi, non mi mette a disagio. Credo semplicemente di essere una persona che non si prende troppo sul serio, e la mia autoironia mi aiuta a fare questo lavoro con leggerezza. Non ho un ego smisurato e questo mi fa sentire a mio agio. Tutto il resto è piuttosto difficile: è un lavoro che sto ancora imparando e capendo».

Vestito giacca e calze Miu MiuVestito, giacca e calze Miu Miu

Dopo aver letto quell’articolo in camerino che diceva che Citadel: Diana aveva raggiunto dei nuovi record per la piattaforma Prime Video in Italia, Matilda si alza in piedi e ritorna davanti alla macchina fotografica con una nuova energia. Ora capisco perfettamente che cosa intendeva quando parlava di volere il controllo su tutto. Davanti all’obiettivo ha tutto l’aspetto di una direttrice d’orchestra. Sa perfettamente qual è il suo lato migliore, la posa in cui viene meglio, i colori che sbattono con la sua carnagione. Leva il maglione, i collant meglio di quell’altro colore, punta la luce di qua, fidati, le gambe stanno bene se le incrocio così. «In questi dieci anni ho imparato a dire le cose che penso siano giuste per me. Non possiamo sempre essere accomodanti». Penso anche al fatto che all’appuntamento al bar ci saremmo poi presentate solo io e lei, non c’era nessun altro ad ascoltare e a contenerla nel caso in cui dicesse troppo. De Angelis ha tutto sotto controllo. Anche la sua immagine. Sul set il fotografo mi mostra il moodboard del servizio e mi dice che l’idea è di farla apparire bella: non simpatica “e anche bella” o divertente “e anche bella”, ma bella e basta. Mi pare abbia usato la parola “diva” proprio perché qualche anno fa era apparsa sulla copertina di Vogue Italia con giustapposto il titolo “antidiva”. Come vuole apparire lei? «Credo al principio di attribuzione secondo il quale gli altri vedono in noi quello che vogliono vedere. Posso essere “antidiva” quanto voglio, ma ci sarà sempre un sacco di gente che pensa che me la tiri o che me la creda tantissimo. È così da sempre, ormai ci ho fatto il callo. Non mi piace l’ipocrisia: non voglio comportarmi in un certo modo per non dare fastidio agli altri. Non voglio essere rassicurante. Se devo essere figa, visto che sono sulla copertina di GQ, allora accetto di essere figa». Mi racconta un aneddoto che tira fuori spesso in questi casi: quando si è trasferita a Roma ed è andata a presentarsi ai dirimpettai, le raccontavano che insieme a lei nel condominio era arrivata anche un’attrice che nessuno però aveva ancora visto. Si trattava, naturalmente, di Matilda. Solo che non aveva nessuna collana di perle e nessuna pelliccia: nessuno sospettava di lei.

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Certo che non è sempre stata così, sicura di chi è e di che immagine di sé vuole consegnare al mondo. Nella vita, come nel lavoro. Dice che è cambiato qualcosa dentro di lei qualche anno fa, ma non fa riferimento a nessun episodio specifico, indica solo le coordinate temporali, la pandemia e i venticinque anni – l’unica vera età degli inconvenienti, dice, altro che i 30. «Ma non tanto perché erano i 25, ma perché era un momento della mia vita che doveva arrivare, dopo che forse avevo rinnegato tante cose. Avevo sempre fatto il gioco di essere buona, giusta, corretta, non dare fastidio, non prendere spazio, perché quello spazio non me lo ero davvero meritato. A un certo punto mi sono stancata di me stessa e di questo modo di vivere. Il primo distacco da quel modo di fare è stato traumatico, ho sofferto molto. Le persone sono abituate a conoscerti in un certo modo, e tu non ti riconosci più; gli altri non ti riconoscono più. Però io dico sempre: le cose nuove accadono quando fai cose nuove, è sempre così. Quindi ho deciso di fare cose nuove, di adottare un modo diverso di vivere. Forse, semplicemente, cinque anni fa ho preso coscienza di alcune cose, ma credo che faccia parte della crescita. Sì, credo di essere semplicemente cresciuta. Ho fatto tanta terapia e ora sono più in contatto con me stessa, ogni giorno». Diventando quasi storici della vita di Matilda De Angelis, si potrebbe indicare il momento in cui ha preso consapevolezza di sé e dei suoi desideri a quando sul viso le è scoppiata una forma di acne. Correva l’anno 2020, appunto. Quando smetti di riconoscere il corpo che abiti da tutta la vita, non puoi che iniziare a osservarlo meglio e a porgli delle domande. Che cosa c’è che non va? Cosa possiamo cambiare? C’è stato un momento, ormai sfuggito alle pieghe della memoria digitale, in cui Matilda si è affidata ai social per condividere la propria malattia, per tentare – con quella vulnerabilità che è sempre così pubblica e così privata insieme – di trasmettere speranza a chi si trovava in situazioni simili. A partire dalla storia della sua acne, su Instagram condivideva immagini del suo volto accompagnate da parole rassicuranti, piccoli mantra di accettazione. «Ogni giorno svegliarmi e presentarmi prima davanti allo specchio e poi davanti alla macchina da presa con tutto il carico emotivo che già comporta ed essere “splendida”, in parte e concentrata insieme a tutte le mie paure e insicurezze letteralmente a fior di pelle», aveva scritto in un post. «Le nostre paure ci possono paralizzare o possono diventare una grande forza, sta a noi scegliere la strada».

Mentre vado a cercare questo post di Instagram, ripenso a quella frase del libro che mi ha letto Matilda al bar. «Un solo nome, semplicemente, non bastava a contenerla». Nei suoi personaggi si sdoppia, si frammenta; lascia piccole tracce di sé in ciascuna delle vite che abita per la durata di una stagione o di una prima serata al cinema, come se la somma di tutte quelle interpretazioni fosse l’unico modo per dare forma completa alla sua esistenza. Ed è per questo che è credibile in tutti i suoi personaggi, dalla spia del 2030 all’avvocata dell’Ottocento: perché è evidente che c’è del vero che porta in ciascuno di quei ruoli. «I personaggi che interpreto hanno sempre delle ferite dentro. Non faccio mai personaggi totalmente positivi o perfettamente limpidi; sono sempre personaggi che hanno qualcosa di rotto, ma anche una grande autodeterminazione. Non so se sia perché c’è un tipo di donna che mi piace, e quindi finisco per innamorarmi sempre dello stesso tipo di personaggio, che forse mi ricorda me stessa, o se sono gli altri a vedere qualcosa in me che li porta ad associarmi a quel tipo di ruolo». Spinta dalla curiosità per l’aura che proietta in chi la sceglie per un ruolo e desiderosa di comprendere quale immagine rifletta a livello globale – essendo una delle poche attrici italiane di risonanza internazionale – mi metto in contatto con i fratelli Russo, executive producer di Citadel: Diana, attraverso quelle catene di mail che richiamano i molti (ma non infiniti) gradi di separazione ipotizzati da Frigyes Karinthy. «Matilda ha una meravigliosa capacità di connettersi con il pubblico a livello emotivo e personale che la rende perfetta per una serie di questa portata. Sapevamo che avrebbe toccato il pubblico globale, non solo per il suo talento naturale, ma anche per la profondità e l’intensità uniche che porta nei suoi ruoli», rispondono. Parlando nello specifico del lavoro che ha fatto in Citadel: Diana, invece, fanno leva su una parola: “complessità”. «Ciò che amiamo di più nella sua interpretazione di Diana è la complessità che porta al personaggio. Diana non è solo una spia; è un individuo profondamente stratificato, che affronta il suo passato e il peso delle scelte che deve fare. Matilda ha catturato quella dualità – la forza e la vulnerabilità – in un modo che appare autentico e magnetico». Usano le stesse parole che usa lei, come se avessero letto quel post che aveva scritto su Instagram, avvalorando quindi l’idea che Matilda De Angelis tenga le redini di tutto, anche delle ombre che proietta nel mondo.

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Il suo antidoto al caos di un mestiere che le impone di indossare volti e vite diverse è di chiudere ognuna di queste in camere separate. Lo fa anche fisicamente, prendendo le distanze. Quando il set finisce e la vita reale ricomincia, stacca, si mette in viaggio e si prende uno spazio che sia interamente suo. È il suo modo per rimettere insieme i pezzi sparsi e riprendersi sé stessa. «Penso che giocare con le dimensioni sia vincente per tenerle separate: per non diventare un personaggio nella vita di tutti i giorni e per non mettere la me di tutti i giorni nel personaggio. Quando faccio un servizio fotografico o un red carpet non sono Matilda De Angelis, ma sono “una” Matilda De Angelis». Appena finirà la promozione di Lidia Poët e di Citadel: Diana prenderà un volo per la Thailandia, dove conta di rimanere per un po’ di tempo. Chi è quindi Matilda De Angelis quando non è occupata a essere “la” Matilda De Angelis? «Ti dirò, io sono una grande amante del far niente, stare a casa tranquilla».

Le chiedo se si libera la mente scrollando TikTok sotto le coperte. «Non ho nemmeno l’app. Quando smetto di lavorare i social per me muoiono, non esistono più. Sono inutili». In effetti, quando vado a controllare il suo profilo quel giorno vedo ripostato solo un video dei Santi Francesi, il gruppo di cui fa parte il fidanzato Alessandro De Santis, che nel corso della conversazione al bar passa a lasciare a Matilda un mazzo di chiavi che ha scordato a casa. Ha raccontato molte volte nelle interviste che si sono conosciuti su Instagram, dove hanno cominciato a seguirsi e poi a scriversi. Lei si era innamorata di lui per la sua voce. Forse, alla fine, i social così inutili non lo sono. «Ora li uso quando devo per promuovere i miei progetti, ma li trovo una gran perdita di tempo. Servono a tre cose: a guardare cose inutili, ad accorgersi che l’umanità è molto cattiva oppure ad accumulare frustrazione perché vedi delle cose che sono troppo lontane da te e con le quali non ti dovresti neanche confrontare, e invece eccole spiattellate davanti ai tuoi occhi». Anche Letterboxd, l’app che usano i cinefili per ricordarsi quali film hanno visto, conta come social? «Sono molto meno cinefila di quello che dovrei essere. Si pensa che se fai l’attore, allora sei follemente innamorato del cinema. A me il cinema piace, molto, ma non ho un rapporto ossessivo, mi piacciono di più altre cose. Se devo scegliere, preferisco andare a una mostra piuttosto che al cinema. Mi piace vedere qualcosa che non posso capire fino in fondo, qualcosa che resta misterioso e irraggiungibile, che per me è più eccitante e affascinante. A volte, quando parlo con registi, produttori, attori, mi sento a disagio. Sai, il classico: “Hai visto quello? Sei andata a vedere questo documentario? Hai un profilo su Letterboxd?”. Ma piuttosto chiedimi dell’ultima mostra che ho visto, dico io». E allora qual è l’ultima che sei andata a vedere, le chiedo io.  «Mi è piaciuta tantissimo quella di Ligabue a Ferrara. Ah, e poi sono stata di nuovo alla Tate e al British Museum a Londra: magico». E le piace ancora tantissimo cantare. Per la nuova stagione de La legge di Lidia Poët ha inciso insieme a Pier Luigi Pasino, l’attore che nella serie interpreta suo fratello, un brano dal titolo Lidia.

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Un po’ per fare il verso a quella frase di Nanni Moretti, la sua vita Matilda la riassumerebbe così: “Gioco alla Play, leggo i libri e passeggio col cane”. «Le mie letture sono molto varie. Ho letto di recente Catalogo delle religioni nuovissime che mi ha fatto molto ridere. Poi ho letto tanto di Goliarda Sapienza, oltre all’Arte della gioiaL’università di RebibbiaIo, Jean GabinIl filo di mezzogiorno…». Poi Biografia di X, mi dice, mostrandomi il telefono, «e questo libro che ho divorato in tre giorni ma di cui non ricordo il titolo. Vedi, ho solo questa foto. Sarà stato 400 pagine, eppure proprio non mi ricordo come si chiamasse. Un thriller, bellissimo». Il suo gioco della Play preferito in questo momento è Far Cry 6: «Un gioco di ribelli che si devono riprendere un’isola. Molto bello, molto violento e anche un po’ crudo. Se mi voglio rilassare, allora gioco a The Sims. Adesso sto giocando a Jedi: Survivor, ma è difficilissimo, non si capisce niente», inizia a raccontarmi, continuando a tirare fuori nomi di videogiochi e a descriverli con le parole “sparatorie”, “action” e “truculento”. Quindi, alla fine, quel mondo di combattimenti, inseguimenti e sparatorie di Citadel: Diana non è così tanto distante da quello frequentato dalla vera Matilda. «Fin da bambina sono sempre stata molto affascinata dai fumetti dei supereroi. Mio padre faceva il fumettista e mi faceva leggere tutto: i Marvel, Dylan Dog, insomma, sono cresciuta in un mondo intriso di storie di gente soprannaturale con poteri che derivavano da qualche forza vendicativa o radioattiva. Non sono mai stata una bambina che giocava con le bambole. È un mondo che poi ho un po’ abbandonato perché avevo fatto delle abbuffate così grandi che alla fine mi era venuto a noia. Ma soprattutto perché se sei una donna e non vedi rappresentato in toto il femminile all’interno di un genere, ti stanchi. Per appassionarti, soprattutto durante la crescita, hai bisogno di riferimenti. Hai bisogno di vederti e sapere che anche tu hai il tuo spazio e puoi essere quello che vedi. Anche una supereroina con le pistole». Spera un giorno di esserlo anche lei.
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