Daniel Maldini, il talento nascosto della dinastia: cosa lo rende davvero speciale?

A Monza ha trovato l’ambiente ideale, fino all’approdo in Nazionale. Merito di una crescita evidente, a livello tecnico ed emotivo.

Per uno come Daniel Maldini, uno che ha sempre dovuto convivere con termini pesanti come dinastiatalento o predestinato, è quasi impossibile considerarsi oppure essere considerato normale. Eppure lui si descrive così, come un ragazzo normale. Sembra un’auto analisi piatta, ma racchiude una vita passata a dribblare il costante accostamento alle leggende di casa, a nonno Cesare e papà Paolo: 11 scudetti, sei Coppe dei Campioni, 1248 presenze con il Milan in due. Numeri che sanno di macigno, da sorreggere con la fatica del cambiamento. Per esempio attraverso un nuovo ruolo, giocando in attacco e non in difesa, il regno di famiglia. Cambiare luogo, quando le cose non funzionano, come successo al Milan, poi a Empoli e a La Spezia. La strada nel calcio di Maldini a 23 anni si sta ancora asfaltando, ma si intravede una costante: il coraggio di prendere decisioni forti, alla ricerca di una normalità che lo sleghi dalla pressione di dover per forza costruire la terza generazione di fenomeni. O, magari, di farlo a modo suo.

In comune con suo padre, Daniel Maldini ha la fermezza. Per niente facili, uomini così poco allineati, direbbe Ivano Fossati, sono persone in grado di fare un passo indietro quando si sentono a disagio. È capitato a entrambi di sentirsi dare dei raccomandati: a Paolo avvenne in occasione di un’incomprensibile conferenza stampa che ne ha segnato l’addio alla Bazionale, dopo l’eliminazione dell’Italia dai mondiali di Korea e Giappone; a Daniel è successo due anni fa, quando al Milan aveva raccolto 144 minuti in otto presenze complessive. I tifosi rossoneri si chiedevano se potesse giocare a San Siro, ma addirittura se fosse un calciatore da Serie A. Così come Paolo diede addio alla maglia azzurra, Daniel ha lasciato il Milan da campione d’Italia, separandosi anche professionalmente dal papà, allora direttore dell’area tecnica del club rossonero.

La prima tappa del viaggio di formazione di Maldini, ovviamente dopo la separazione dal Milan, è lo Spezia. È come se Daniel decidesse di assecondare le buone vibes che provava verso la squadra ligure, a cui l’anno prima aveva segnato al debutto in A. L’ambiente che trova, però, non è quello ideale: lo Spezia è una squadra molto hipster, che ha tanti nomi esotici ma forse ha pochi elementi davvero abituati a lottare per la salvezza. Un affaticamento muscolare ne condiziona l’inizio di stagione, e così deve aspettare novembre per la prima da titolare. Quel momento arriva proprio a San Siro e proprio contro il Milan. Sotto gli occhi di papà Paolo, che rimane una sfinge anche quando in cui il figlio pareggia il gol di Theo Hernández.

Senza esultare, naturalmente

La prima rete contro il Milan è un piccolo spoiler di come calcia Maldini: se può usa l’interno destro, con cui si sente più sicuro. Arriva così anche il secondo gol e ultimo gol del campionato vissuto a La Spezia. Per altro in un’altra partita particolare, quella contro l’Inter, in una serata in cui al Picco si illudono di potersi staccare dai bassifondi della classifica.

In realtà allo Spezia si vive una di quelle annate in cui quando piove diluvia. Tre allenatori cambiati, Alvini, Gotti e Semplici, e tutti hanno avuto a che fare con lo stesso rebus da risolvere: il ruolo di Daniel Maldini. Alvini e Gotti lo schierano come trequartista o come seconda punta; Semplici, quello che gli concede più minutaggio, come esterno alto a sinistra. «Nonostante sia qui da inizio anno, i compagni devono ancora capire il valore del ragazzo», spiega l’allenatore toscano in conferenza ad aprile 2023, prima del match contro la Lazio. «Ma lui deve raccordare, deve farsi vedere e creare spazi». In quella partita Maldini entra a mezz’ora dalla fine, senza incidere. Poi gioca da titolare la settimana dopo contro la Sampdoria, ma il suo sabato dura appena 31 minuti. Si ferma per un problema muscolare, non rientra più.

Deve guardare da fuori il finale di stagione tragico dei suoi compagni, capaci di perdere cinque delle ultime sette in campionato e poi anche lo spareggio salvezza contro il Verona. È una doppia sconfitta per Maldini, che retrocede sul campo e nel cammino di crescita. Tornato al Milan dopo la scadenza del prestito, non trova neanche più il papà, licenziato dalla nuova proprietà. In società mutano visioni e progetti tecnici. Prima di venire accantonato, è lui a scegliere di mettersi alla prova altrove. Va ad Empoli, dove dove rivive il suo personale giorno della marmotta: altro allenatore toscano, Aurelio Andreazzoli, e gli stessi problemi tattici. «Il suo ruolo? Me lo chiedo anch’io», confessa il tecnico.

C’è poco da fare, se vuole giocare deve trasferirsi nel mercato di gennaio. Gli viene incontro Galliani, un amico della famiglia Maldini, ma anche l’amministratore delegato del Monza. Strano paradosso per chi, come Daniel, sta schivando i continui rimandi a un cognome ingombrante. In Brianza, Daniel Maldini trova la sua dimensione. Palladino risolve l’equivoco tattico, schierandolo nella linea dei trequarti dietro Djuric. Daniel, in quella posizione, sa perfettamente quello che deve fare: alzare la testa e imbucare per i compagni. Nonostante disputi la metà dei minuti rispetto alla stagione con lo Spezia, in 11 partite con il Monza mette insieme quattro gol e un assist. Sono i numeri di un giocatore in fiducia, che non si accontenta del tocco facile, ma che tenta spesso la giocata decisiva. Arrivano importanti endorsement, in primis da colui che lo vede allenarsi tutti i giorni. «Per me ha tutto per fare il calciatore ad alti livelli», dice di lui Palladino. «Può ambire anche alla Nazionale». Col senno di poi, sa di profezia.

L’ottimo rendimento di Maldini nel girone di ritorno convince il Monza, in estate, a riscattarlo a titolo definitivo. Daniel ripaga la fiducia lavorando sul suo fisico, irrobustendosi.  Il cambio di allenatore, da Palladino a Nesta, modifica anche il suo gioco, per certi versi lo arricchiesce. Il nuovo tecnico del Monza imposta una squadra corta e dal baricentro basso. Maldini spesso riceve palla girato di spalle ma ora, con una struttura muscolare più solida, può difendersi meglio e bruciare l’avversario già col primo passo. Parte da lontano, è in grado di far salire la squadra con qualità, pulendo palloni scomodi e coprendo ampie sezioni di campo in accelerazione.

Il suo approccio a questo campionato è quasi scientifico: anche se la sua squadra vive un momento di assoluta difficoltà, penultima e con il secondo peggior attacco della Serie A, tutti i  suoi possessi hanno valore. Lo si vede anche nel momento dell’esordio in Nazionale, contro Israele in Nations League: alla prima ricezione utile, subito un controllo orientato e un filtrante con tunnel per Udogie, bravo poi a trovare Di Lorenzo per il gol del 4-1.

Una giocata bella e intelligente può cambiare il senso di un’azione

Ogni scelta di Maldini, in campo e anche fuori, è pensata, ragionata, razionalizzata. Lo è quando salta l’uomo o calcia in porta, quando serve il compagno meglio posizionato. C’è però l’altra faccia della medaglia, perché se è vero che così non perde palla, è altrettanto vero che nel pensare a volte perde un tempo di gioco. Oltre al modo di calciare, ancora troppo smorzato, è forse questo l’aspetto su cui Maldini può lavorare: deve continuare a scegliere bene, ma deve farlo più rapidamente.  Il Monza si sta aggrappando a lui e a modo suo, con riservatezza, Maldini sta diventando un leader. «Monza è il mio posto nel mondo», ha raccontato alla Gazzetta dello Sport. «Avevo bisogno di avere più responsabilità, ma anche di stare tranquillo».

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